Le cure palliative, già largamente utilizzate in Inghilterra negli anni ’50, hanno avuto una notevole diffusione in Italia dai primi anni ’80 grazie soprattutto al prof. Vittorio Ventafridda, un vero e proprio pioniere, fondatore della Società Italiana per Le Cure Palliative e grazie anche alle varie fondazioni e associazioni di volontariato che da subito ne hanno condiviso e promosso i princìpi e che si sono moltiplicate negli anni (come la Fondazione Floriani, per esempio, o la Fondazione Ant, presente in modo capillare su tutto il territorio italiano, per citarne solo due). Dobbiamo aspettare la legge n. 38/2010 perché questo tipo di assistenza sia riconosciuto come un diritto del malato e quindi diventi prassi comune nelle strutture sanitarie pubbliche.
La legge prevede che sia le strutture ospedaliere sia il medico di famiglia, che avrà in carico fino alla fine il malato terminale che sceglie di essere curato in casa, debbano avere a disposizione una équipe multidisciplinare composta da medici palliativisti, infermieri, psicologi, fisioterapisti, assistenti sociali e volontari, alla quale rivolgersi per chiedere una consulenza o il supporto per un’assistenza adeguata dei malati terminali e delle loro famiglie. In mancanza, però, di un organico specificatamente preparato per le cure palliative, le stesse Asl, come nel caso della Puglia, si avvalgono della collaborazione delle varie fondazioni o associazioni di volontariato che da anni sono operative in questo settore e che assicurano personale qualificato e altamente specializzato.
Ma che cosa sono, in realtà, le cure palliative?
L'espressione “palliativo”, che deriva dal termine latino “pallium”, cioè “il mantello che ti copre dietro”, e quindi in qualche modo protegge, diventa per questa ragione sinonimo di assistenza (“ad-sistere”, cioè “stare accanto”), di accoglienza e adesione solidale.
Secondo la definizione della “European Association for Palliative Care” le cure palliative sono “la cura attiva e globale prestata al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria. Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine”.
In realtà la creazione di una relazione, di un accompagnamento, di una terapia del dolore non invasiva possono consentire, anche ad una persona in forte stato di sofferenza psico-fisica, di intensificare la sua forza vitale fino all'ultimo giorno.
Cecily Sanders, fondatrice in Inghilterra del “Movimento degli Hospice” afferma: “La domanda «fatemi morire» dell'ammalato terminale contiene implicitamente un altro tipo di richiesta che in realtà è una invocazione d'aiuto: «occupatevi di me e alleviate le mie sofferenze». Quando questo aiuto viene effettivamente dato, la richiesta di eutanasia non è ripetuta.” (tratto da “Le cure palliative e la terapia del dolore” - dott. Franco De Como).
Tutto questo conferma anche quanto sostenuto da Rodolfo Bosetti: “Le cure palliative sarebbero l'umanizzazione della medicina, che si ha paradossalmente quando non c'è più niente da fare rispetto al guarire. È la medicina più avanzata, che accompagna amorevolmente queste persone e anche i familiari.” (tratto da “La morte fa paura ma è solo un arrivederci” – “Credere” n° 26 del 28-06-2020).
In questa riflessione ci occuperemo in particolare di una delle componenti dell'équipe multidisciplinare prevista per le Cure palliative, che è quella del volontario.
Per definizione i volontari sono coloro che svolgono un’attività liberamente scelta e gratuita a favore della collettività, ma “…non devono restare soggetti che gratuitamente forniscono prestazioni che abbassano i costi”, come ebbe a dire Stefano Zamagni, parlando al 15° Congresso Nazionale di Cure Palliative.
Per definire la figura del volontario, per stabilire quelle che devono essere le sue caratteristiche imprescindibili sia come dotazione di base, sia come peculiarità da acquisire per un servizio ottimale, ci avvarremo in buona parte proprio della relazione tenuta dal Prof. Zamagni nel convegno citato, che si svolse presso i Giardini Naxos nel 2008, ancora oggi una pietra miliare di questa componente delle cure palliative.
Innanzi tutto Il volontario deve avere una disponibilità di tempo programmabile con sistematicità, cioè deve poter offrire un monte ore, anche esiguo, che sia fisso in giorni e orari prestabiliti, per dare delle certezze di presenza e ottimizzare così tempi e modalità di intervento.
È quasi sempre spinto da una motivazione di tipo solidaristico (da “solidus”, cioè “concreto”, che si traduce dunque in un “fare concretamente”), che si attualizza al meglio solo quanto più il “fare” è vicino alla sua indole, al suo carattere e alle sue vere capacità. Questo significa che il volontario deve soprattutto avere una buona conoscenza di sé, delle proprie possibilità, ma anche dei propri limiti e questa consapevolezza di sé, l’attenzione a sé, permette scelte dinamiche, duttili e flessibili sia nei vari, possibili, settori d'intervento, sia nel tempo, ma soprattutto permette di accogliere con serenità l'eventuale successiva consapevolezza del fatto che non sempre desiderio di fare e capacità coincidono.
Secondo Zamagni, nel settore assistenziale una buona relazione d'aiuto si può ottenere soltanto se si agisce secondo due princìpi assolutamente necessari e strettamente legati l'uno all'altro.
Il primo è il “principio di vulnerabilità.”
Questo termine, nella sua etimologia, significa essere abili ad avere un “vulnus”, una ferita… Non è un paradosso: vuol dire che, in particolari condizioni di vita, chi si trova in situazioni di fragilità è in grado di trasformare questo suo “vulnus” in abilità nel momento in cui diventa “capace” di accogliere la sua ferita.
Accogliere è un verbo ricchissimo di sfumature, che risente in particolar modo della formazione spirituale di ciascuno, ma in ogni caso si comincia già ad “accogliere” quando si riconosce la vulnerabilità come cifra della condizione umana, quando cioè ci riconosciamo tutti come passibili di ferite, come continui “portatori” di bisogni.
Per questo motivo tra il volontario e il malato terminale si crea un legame, una specie di dipendenza reciproca che si può cogliere e comprendere solo in un'ottica di simmetria di bisogni: quando il volontario riconosce che la fragilità di un paziente è condizione comune, nel momento in cui cerca di aiutarlo ad accogliere e gestire questa sua condizione, proprio questo “prendersi cura” diventa l'espressione concreta del suo bisogno di “dare” cura e il malato terminale, in questo modo, diventa anche lui soggetto di benevolenza, cioè persona consapevole della sua capacità di dare un senso al “fare” di chi si prende cura di lui.
Abbiamo dunque due soggetti che interagiscono e non un oggetto passivo dell'attenzione altrui, sensazione che si accompagna quasi sempre ad un profondo senso di umiliazione.
Il secondo principio cardine, strettamente legato a quello della vulner-abilità, è il “principio di reciprocità”.
La reciprocità, che non rientra né nella logica contrattuale né in quella del semplice scambio, secondo Zamagni è un prodotto dell'evoluzione civile, è un atto culturale, una conquista morale, è un atto di gratuità, ma non fine a se stesso perché richiede comunque una risposta: la reciprocazione.
Il beneficiato infatti restituisce a chi lo sta aiutando il significato del suo operare e il volontario aiuta e allo stesso tempo restituisce al malato terminale il senso della sua utilità.
Questo tipo di relazione è reso impossibile da un atteggiamento di buonismo, di facile compassione, di paternalismo, perché se si pensa che il malato terminale non possa più dare alcunché, non si è usciti dalla logica dello scambio mercantile ed è quasi impossibile instaurare la reciprocità.
È ovvio che tale reciprocità si basa comunque su un principio di proporzione e non di equivalenza: non si può restituire in modo paritario a quanto si è ricevuto, questo sarebbe scambio di mercato, ma si dà in proporzione alla propria condizione e alla propria capacità.
Quando, però, il malato terminale e il volontario non riescono a trovare un terreno comune e condiviso, da percorrere insieme, perché comunque ognuno ha il proprio bagaglio emozionale che può tradursi in uno stile di comportamento non accogliente, nonostante tutte le buone intenzioni, allora dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad un “incidente assistenziale”.
Questi incidenti sono inevitabili se il volontario, ad esempio, sta bene solo se c'è un ritorno di gratificazione in tutto quello che fa e quindi non riesce a guardare con serenità ai propri errori, oppure, cercando solo l'approvazione degli altri, manca totalmente di flessibilità e si aggrappa alle sue certezze immodificabili. Potrebbe rientrare in quest’ultima categoria quell'atteggiamento di buonismo e paternalismo che di fatto non sa minimamente cogliere quelle che sono le vere esigenze della persona con cui si entra in relazione, che è relazione complessa perché innesca un campo emozionale sotterraneo molto intenso. Può succedere, allora, che si tenda a reagire con “il fare” per non sentire il disagio “dell'esserci” in quel determinato momento, perché “l’esserci” è faticoso, presuppone un ascolto emozionale di sé e degli altri, una flessibilità nei propri modi di operare.
Il volontario mette in gioco la propria sensibilità nel saper cogliere le varie situazioni che intervengono in un processo di malattia difficile da sostenere per tutta la famiglia.
Allora è evidente come sia fondamentale una preparazione che deve essere “in progress” sempre, perché si va nel profondo di sé, si impara a guardare ai propri bisogni per riconoscere e comprendere quelli degli altri (principio di vulner-abilità), si impara e ci si abitua a passare dal “che cosa posso fare Io per te?” al “che cosa Tu vuoi che io faccia?” dove l'attenzione operativa si sposta significativamente dall’io al tu (principio di reciprocità).
Si impara l'arte di “stare nella domanda”, che significa imparare a dare non di più né di meno di quanto l'altro davvero vuole, ed è un'arte perché è già difficile dimenticarsi di sé, rinunciare a dare soluzioni per mettersi in ascolto, ma lo è ancora di più quando la domanda è inespressa, come accade il più delle volte.
Ma il volontario è solo uno degli operatori: allora, essendo così complessa e delicata la relazione d'aiuto, nell’équipe diventa quasi obbligatoria la circolarità delle informazioni, perché, anche se ognuno ha compiti e ruoli specifici, solo insieme si può raggiungere il medesimo obiettivo, cioè la conoscenza del sofferente nella sua globalità, in quanto essere umano, la conoscenza delle relazioni familiari, la conoscenza di quei bisogni del sofferente e della sua famiglia che potrebbero non essere stati colti da tutti gli operatori. In tutto questo il ruolo del volontario preparato è insostituibile, perché è la persona a cui più facilmente si apre il cuore, è colui che più di altri ha il tempo, il modo, gli strumenti per osservare e cogliere anche il non-detto. Il risultato di queste “conoscenze” condivise diventa la possibilità di una relazione d'aiuto autentica e pacificante.
Il volontario ha comunque bisogno egli stesso di un monitoraggio psicologico continuo per mantenere alta la qualità della preparazione “in progress”, per essere aiutato a cogliere e a fronteggiare i possibili segnali di coinvolgimento emotivo negativo da sovraccarico, il famoso burn-out, o gli eventuali incidenti assistenziali. Deve essere aiutato a saper dire “basta”, quando necessario, con umiltà e consapevolezza.
Da tutto questo è abbastanza facile comprendere che la scelta del volontario che possa entrare a far parte dell'équipe socio-assistenziale non può essere improvvisata e così dovrebbe essere per chiunque si accosta al malato anche solo come ministro straordinario: la sua designazione non può essere frutto di una semplice verifica di disponibilità.
Scienza e Fede possono e devono essere coniugate insieme.
In questa riflessione abbiamo privilegiato un linguaggio prettamente scientifico e abbiamo chiamato , con Zamagni, “principio di vulner-abilità” e “principio di reciprocità” quello che Gesù ci ha da sempre invitato a fare: amarci gli uni gli altri con accoglienza e tolleranza, riconoscendoci fratelli anche perché ugualmente fragili, rinunciando al giudizio perché fra trave e pagliuzza abbiamo ben poco da giudicare, ma l’ invito del Signore è soprattutto quello di abbandonare la logica mercantile dell'amore dato e ricevuto in pari misura per amare e basta, accogliendo con gratitudine qualsiasi cosa l'altro sia in grado effettivamente di restituirci. È quanto Gesù fa quotidianamente con ciascuno di noi, amandoci in maniera sproporzionata.
La scienza ci insegna come fare, la fede ci dona l'amore necessario per riuscirci.
Per questo chiediamo ad ogni pastorale sanitaria locale di creare e d’incrementare i corsi di formazione per preparare adeguatamente il maggior numero possibile di volontari vulner-abili, che possano essere introdotti nelle équipe multidisciplinari, ma anche, e soprattutto perché più immediato, per preparare ministri straordinari che siano in grado di prendersi cura in particolare dei malati terminali, prendendo come modello formativo e operativo quanto già da trent’anni si fa nelle varie associazioni di volontariato.